Il debito greco 1

Antica Dracma ateniese

Anche quest’anno tornerò in Grecia. E c’è già chi mi dice: ma come? La situazione è così grave! Non sarà pericoloso? Perché dovrebbe esserlo, rispondo. Perché lo hanno detto in televisione? E che cosa hanno detto esattamente? Che cosa è davvero “grave”? A me sembra grave che ogni giorno ci sia chi cerca di terrorizzarci senza neanche spiegare esattamente cosa sta succedendo, e che si confondano allegramente le preoccupazioni reali delle persone che sono costrette a fare dei sacrifici con quelle delle banche e degli speculatori (altre persone, che però fanno finta di essere concetti astratti, tipo i mercati) che non riescono più a far quadrare quei conti che essi stessi hanno alterato e manipolato per guadagnare di più, più facilmente, più velocemente, come se il denaro fosse l’unica unità di misura del mondo, del tempo e dello spazio.

Ma ho già usato un’espressione a sproposito: fare sacrifici. Non ci si dovrebbe riferire alla Grecia e ai greci parlando di “fare sacrifici” quando si intende dire che c’è chi non riesce ad arrivare a fine mese o chi si vede decurtato lo stipendio: fare sacrifici ha un significato molto più ampio nella cultura greca antica, è un insieme di gesti rituali attraverso i quali si cerca di evitare, quasi sempre invano, che gli dei puniscano gli uomini, o se la prendano con loro perché sono stati troppo orgogliosi, o più semplicemente li tormentino senza una ragione precisa, solo perché sono immortali e si annoiano. Forse è per questo che i greci mostrano ancora oggi di essere meno propensi di altri ad accettarli: è come se sapessero che fare sacrifici è inutile, e che gli uni e gli altri, gli uomini e gli dei, non potranno comunque cambiare il proprio destino, per quanto ne siano gli artefici consapevoli.

E poi c’è da dire che mentre gli uomini sono ancora fragili presenze esposte ai rischi e all’abisso dello sconforto, oggi come allora, gli dei non hanno più la tragica imponenza di Zeus, la terribile atarassia di Apollo o la violenta sapienza di Atena: sono banchieri dall’aspetto viscido, politici che a volte sembra che non sappiano quello che dicono, faccendieri, corruttori; gente che nei miti antichi e nelle storie attraverso cui essi prendono forma non è neppure contemplata. Quello che è cambiato davvero è che nei sacrifici contemporanei non si contempla più la scelta di un capro espiatorio per rappresentare l’intera comunità, e proteggerla indirettamente. Non è più la sofferenza di pochi che si offre o si sceglie perché molti possano salvarsi: è la comunità nel suo complesso che diventa oggetto del sacrificio, sacrificabile di fronte alle istanze instabili delle borse e agli umori dei gruppi finanziari: la sofferenza di molti mantiene i privilegi di pochi. Tutte le donne greche, adesso, sono Ifigenia; con la differenza che Ifigenia sapeva a cosa andava incontro, e soprattutto perché. Basterebbe soltanto comprendere questa lucida amarezza per tornare in Grecia senza bisogno di giustificarsi con chi ricicla i titoli dei giornali.

Ma io ci torno anche perché non ho crediti da incassare: anzi, ho molti debiti verso la Grecia, e cerco di scontarli così, tornando a emozionarmi e commuovermi, ben sapendo che non riuscirò mai a estinguerli.

Sono in debito con la Grecia perché so bene che è proprio lì che ha preso forma tutto ciò che siamo. Perché i greci seppero passare dalle metafore del mito alla complessità del ragionamento astratto, e non saremmo neppure qui a parlarne se non lo avessero fatto.

Sono in debito con la Grecia ogni volta che vado ad Atene e mi fermo a guardare il tramonto dall’antico aeropago: sono quattro sassi che a forza di essere calpestati sono diventati scivolosi, ma tu sai che è proprio lì che i cittadini cominciarono a riunirsi per parlare del bene comune (la politica, letteralmente), si confrontarono, presero delle decisioni; ed è così che nacque la democrazia, che è una forma di governo imperfetta, certo, ma è ancora oggi la migliore che abbiamo.

Sono in debito con la Grecia per il brivido che provo alle Termopili: non dove si fermano i turisti, giù in basso, sotto il monumento a Leonida, ma proprio alle sorgenti calde (questo vuol dire “termopili”) lungo il sentiero che sale verso la gola, dove un gruppo di uomini decise che era meglio morire per difendere la propria indipendenza piuttosto che sopravvivere senza dignità.

Sono in debito con la Grecia quando penso alla tragica grandezza di quegli eroi che pur sapendo che ciò che stavano per fare li avrebbe condannati seppero affrontare le implicazioni delle loro scelte a testa alta: Prometeo, che sfidò gli dei per donare agli uomini la scintilla da cui comincia la conoscenza; Anfiarao, che mosse contro Tebe anche se era certo che non sarebbe tornato; Ettore, che lasciò ad Andromaca le parole e l’esempio più belli che si possano ancora oggi concepire.

Sono in debito con la Grecia perché ci ha insegnato che in quanto esseri umani possiamo e dobbiamo cercare di fare tutto ciò che possiamo immaginare, a condizione di non eccedere: quasi il contrario di come ormai ci siamo ridotti a vivere, immersi in un continuo invito alla “ybris” (di tutto, di più), a condizione di non essere mai davvero liberi di perseguire i nostri desideri più veri e profondi.

Sono in debito con la Grecia perché ci ha descritto e raccontato ciò che si nasconde dentro ogni nostro respiro, e lo ha fatto così bene che dopo millenni non riusciremmo a parlare dell’inquietudine, della crescita, delle contraddizioni, della paura, dell’entusiasmo, della complessità o della stessa anima (con la sua luce e il suo lato oscuro) senza ripensare a Odisseo, a Edipo, a Cassandra, a Oreste, a Medea.

Sono in debito con la Grecia perché tutto scorre ancora, anche se Achille pièveloce non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga; perché le statue si limitano a sorridere; perché il sole tramonta in linea con le colonne del tempio; e l’ombelico del mondo si perde nel mare degli ulivi.

Sono in debito con la Grecia per certi versi e certe frasi che ti restano dentro anche se le hai lette una sola volta tanto tempo fa: il suono disarticolato degli uccelli di Aristofane, gli slanci d’amore di Saffo, la malinconia che gli scrittori alessandrini scoprirono, e seppero esplorare. Perché Alcmane ha descritto la notte dicendo “dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese”. Perché l’alba non è solo un momento della giornata, ma è “rododaktilos eos”, l’aurora dalle dita di rosa. E poi, perché qualche volta ho letto anche gli eruditi bizantini, e ho scoperto che sono attualissimi. E perché conosco qualche scrittore greco moderno: Costantino Kavafis, che ci ricorda di portare Itaca nel cuore, come una metafora del desiderio; Giannis Ritsos, capace di parole dure e affascinanti ma anche di cantare alla luna come pochi sono riusciti a fare; Samarakis, che a un certo punto dice semplicemente che “zeta” vuol dire “è vivo” in greco antico; Kazantakis e il suo alter ego Zorba, che in tre parole ci spiega che per essere davvero liberi non bisogna aspettarsi nulla, né temere qualcosa.

Sono in debito con la Grecia perché hanno inventato i libri.

Mi chiedo perché tutto questo non possa essere considerato alla voce “economia”, che poi è anch’essa una parola greca, che letteralmente significa governare la casa. Mi chiedo che senso abbia pensare che la crescita di una comunità si misuri solo attraverso il PIL e la ricchezza solo attraverso i debiti. Siamo davvero diventati così aridi? Quanto “vale” una tradizione culturale, un’opera d’arte, un’emozione nell’economia di una nazione o di un continente? Possibile che non conti nulla? Cos’è che ci fa sentire vivi? Non credo proprio che sia l’andamento dello spread o l’indice della borsa. Ci sentiamo vivi quando possiamo osservare, pensare, conoscere, amare, emozionarci; quando incontriamo la bellezza; quando riusciamo a mantenerci in equilibrio su quell’abisso che mostrandoci la disperazione ci rivela la gioia. C’è un prodotto interno “netto” del tutto intangibile nell’insieme di tutto ciò che ci fa diventare e restare umani, che ci fa davvero crescere. E gran parte di questo valore lo dobbiamo alla Grecia: in quanto entità storica, in quanto metafora, in quanto immaginazione. E per ciò che ne resta nel paesaggio, tra le rovine, nella mente e nel cuore delle persone. Sì, tornerò in Grecia anche quest’anno.

One comment on “Il debito greco

  1. Lidia Grandi Dec 28,2012 5:56 pm

    è veramente piacevole e intrigante seguire il pensiero che si articola e si svolge in questo scritto e recepirne tutta la bellezza, la forza, l’energia, la convinzione, la vitalità

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