Storia di un panino 1

Oggi ho mangiato un panino. E che bisogno c’è di raccontarlo, direte? Bisogna che lo racconti, invece, perché era un panino fatto con cura. Sembra facile fare un panino, ma c’è modo e modo di farlo. E la maggior parte dei panini che mangiamo quando siamo in giro per lavoro o in viaggio sono fatti male. Anzi, peggio: sono fatti senza accuratezza, sono omologati, impacchettati nella plastica, conservati, decongelati, senza spessore e senza sapore. Ma il panino che ho mangiato oggi era ben fatto. Ero a Firenze e sono entrato in una piccola bottega su una strada secondaria. La gestisce un ragazzo, che espone dei panini appena preparati ma ti chiede subito se preferisci qualcosa di più. Proprio così. Quanti ce ne sono ancora di bottegai che ti propongono di non accontentarti? Qui in Toscana forse ce ne sono ancora abbastanza, ma sono sicuro che i più preferiscono vendere qualcosa di pronto, per non parlare delle catene, dei fast food, delle aree di servizio, dove si vendono soltanto panini che non si sa nemmeno dove e quando sono stati preparati, né da chi, né perché. Nella botteguccia invece mi chiedono se voglio “costruirlo” insieme a loro il panino, lì e adesso. Certo che sì, rispondo. Si comincia con la scelta del pane. Lo so che non sembra neanche possibile, ma oggi ho mangiato un panino scegliendo il pane. Ho scelto una schiacciata morbida, che il ragazzo ha aperto e messo a scaldare in un forno, tenendo separate le due fette. Intanto si parla del ripieno. Nel banco vedo un bel prosciutto, voglio quello. E poi del formaggio. Va a prendere una forma di pecorino maremmano e ne taglia tre fette a mano. Poi toglie le bucce, una ad una. Solo a quel punto toglie il pane caldo dal forno, e su una delle due fette appoggia subito il formaggio. Mi chiede se mi piace l’idea di una salsa, suggerisce tartufo o carciofi. Preferisco la salsa di carciofi, la spalma sull’altra fetta in modo da coprirla quasi interamente. Infine, affetta velocemente il prosciutto e lo mette sopra il formaggio, ma lasciandolo cadere, in modo che le fette non si distendano e non sentano il calore del pane. Poi chiude il panino mettendo la fetta con la salsa di carciofi sopra l’altra, e me lo passa. Buonissimo, e non soltanto per via degli ingredienti: in un panino – come nella vita del resto – conta anche la cura, la voglia di fare bene le cose, è quella la differenza, quei minuti e quell’attenzione spesa nella preparazione. Quella lentezza che migliora il risultato. Tempo senza prezzo. Che non ho neanche pagato. Già, perché il panino che ho mangiato oggi costava poco più della metà di una di quelle schifezze preconfezionate che vendono nelle stazioni o nei centri commerciali. Quando gli unici panini che si riuscirà a trovare in città saranno quelli me ne andrò via. Ma intanto resto qui, perché c’è ancora qualche bottega dove mangiare un panino può diventare una storia.

Addendum: Stefano Angelo recita questo post a scopo didattico e non solo…

One comment on “Storia di un panino

  1. Mario Rotta Dec 30,2010 10:51 am

    Ripropongo volentieri in forma di commento al mio post un bel racconto/messaggio di Pier Luigi Ferrenti.

    Come Mario, e come faccio spesso, stamani ho mangiato un panino. Sono andato alla “grotta”, una “pizzicheria” vicina al mio ufficio, in Piazza S. Michele [a Lucca, bdr], e mi son fatto tagliare due fette di pane, di farina scura, del tipo casalingo, con la crosta morbida. C’ho fatto mettere dentro quattro fette di prosciutto “bazzone” (un prosciutto che viene dalla Garfagnana, fatto coi maiali allevati sul posto, salato come in genere il prosciutto toscano, da qualche anno presidio slow food) e tre fettine di pecorino di Pienza (fresco). Il prosciutto me l’hanno tagliato, come sempre, con il coltello (che l’affettatrice lo strina, e perde il sapore e il profumo s’annebbia), le fette di pecorino me l’hanno pesate, e poi con il coltello mi c’hanno tolto la buccia. Non c’ho fatto mettere la salsa, che non mi ci piace, nè ho fatto scaldare il pane, ma è solo questione di punti di vista. Come quasi sempre, la bottega era piena di gente, a comprare salumi e formaggi, o piatti cucinati nel retro e venduti da asporto; ma come sempre non mi hanno messo fretta, nè si sono seccati perché ” facevo perdergli tempo con un panino”, come capita laddove il guadagno rispetto al lavoro viene giudicato non conveniente, nè hanno fatto le cose in fretta.
    Ho speso 4,20 euro.
    Il panino l’ho finito mentre rispondevo a questa mail, masticando a lungo e scrivendo con un dito. Ora scendo giù, vado in piazza San Giusto e ci bevo su un bicchiere, due euro, uvaggio misto sangiovese e colorino lucchese, fatto sulle nostre colline. Spesa totale 6,20 euro, meno di un piatto di pasta surgelato e riscaldato nel microonde: è mezzogiorno e mezzo, ci sono ancora un paio d’ore di lavoro, le immagino piacevoli (dopo il bazzone e il canaiolo).
    Forse il panino non basta per non scappare da questo Paese, ma aiuta.
    State in salute

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