L’indifferenza dell’epica

Fuocoammare

Premetto che quello che sto per scrivere non è un giudizio di merito su “Fuocoammare”; piuttosto, è un esercizio di stile, un ragionamento sulla comunicazione e i suoi linguaggi. Non dirò quindi né che mi è piaciuto né che non mi è piaciuto. Non è questo il punto, direbbe un filosofo francese. Il punto consiste nel capire che cosa è il cinema e che cosa non lo è, o che cosa è il reportage e che cosa non è: ed è proprio qui che comincia il ragionamento. Se il cinema (anzi, citando Pasolini, il film) è un messaggio, o se il reportage è il contenuto di un messaggio, non si può fare a meno di riconoscere a Rosi la capacità di cogliere alcuni aspetti essenziali e finora poco evidenziati del problema che affronta per ricavarne frammenti di un discorso che cerca di parlare alla nostra coscienza. Si può forse osservare che i messaggi inviati sono troppo pochi per definire “Fuocoammare” un film, e troppi per definirlo un reportage. Ma è innegabile che questi contenuti ci siano e siano talora giustamente “insopportabili”, perché ci costringano a vedere ciò che preferiremmo ignorare, per egoismo o per indifferenza, o più semplicemente per quieto vivere.

Ma il cinema o il reportage in forma di film non consistono soltanto nella natura e nel tono (e meno che mai nella correttezza) dei messaggi che inviano. Sono narrazioni affidate a linguaggi espressivi, mezzi (cioè media) attraverso cui gli stessi messaggi possono essere rafforzati, resi più incisivi, fino a diventare “epica”, se necessario, nel senso etimologico della parola. Ed è qui che vedo in “Fuocoammare” dei limiti, peraltro tipici di gran parte del cinema italiano impegnato: una lentezza esasperante (nel linguaggio cinematografico insistere su una stessa inquadratura per diversi minuti equivale a sprecare pagine e pagine in una descrizione superflua, che in un libro sarebbe subito definita come un riempimento per nascondere la mancanza di idee…), la sostanziale assenza di una storia coerente, ovvero di una sceneggiatura forte, drammatica (anche in questo caso nel senso etimologico della parola), la tendenziale debolezza dei personaggi (magari è voluta, ma come facciamo a capirlo? Che cosa li lega? Dove si intrecciano le loro storie? Sono davvero personaggi di un film o sono solo testimoni in un reportage?) e soprattutto degli interpreti (ma perché non rivolgersi ad attori “veri”? Perché 50 anni dopo Pasolini puntare ancora sulla presunta spontaneità di non professionisti che spesso finiscono con l’interpretare male perfino se stessi?). In sostanza, come esempio di reportage “Fuocoammare” potrebbe funzionare, se ci fosse una voce narrante. Come film non ha ritmo, non delinea un racconto, si limita a oscillare tra qualche immagine che può somigliare alla poesia e qualche altra immagine che ricorda più che altro la fotografia, ma senza possederne la sintesi. Insomma, inutile girare attorno al concetto: come film, secondo me, è noioso.

Forse mi aspettavo troppo da questo punto di vista. Avevo in mente, sullo stesso problema (le migrazioni, l’impatto tra culture diverse…), film come “Crossing Over”, di Wayne Kramer (2009) o “Babel”, di Alejandro Gonzalez Inarritu (2006); ovvero film capaci di affrontare l’argomento delineandone proprio la dimensione epica che, in quel caso, si riesce perfettamente a cogliere e a cui invece il film di Rosi sembra quasi del tutto indifferente. Il paradosso è che in quei film con attori hollywoodiani, dove si raccontano storie che non sono necessariamente vere ma che lo diventano perché sono raccontate in modo magistrale, non c’è quasi traccia di retorica, né di intellettualismo. Che invece si percepiscono proprio in “Fuocoammare”, proprio in un film che vorrebbe mantenersi il più possibile vicino ad una realtà, o meglio ad una verità per rendere il senso della quale evidentemente non basta la volontà, ma occorre anche una certa capacità di rappresentazione. Che forse ci manca, che forse noi, noi italiani, abbiamo perso per eccesso di disincanto, o per paura di sembrare scorretti. O forse, più semplicemente, perché per raccontare delle storie bisogna far parte della storia: e noi ne siamo sostanzialmente esclusi.

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