Giochi con l’acqua

Si potrà ancora parlare dell’acqua? O si dovrà pagare una royalty? E si potrà dire qualcosa che non sia puramente ideologico o pseudo-socio-politichese? Io sono cresciuto passando l’estate nel sud, e poi in Grecia. Ho imparato che l’acqua, per molti e in molti luoghi, è un bene raro e prezioso, e per quanto mi riguarda non mi piace affatto sprecarla inutilmente. Per questo, forse, nelle discussioni di questi giorni sul decreto che introduce il principio della privatizzazione dei servizi idrici (discussioni limitate a dire la verità, quasi annegate in ben altro rumore di fondo sulle manovre pre-elettorali, le finte scaramucce tra chi è pro e di è contro qualcosa di cui non importa nulla ad entrambi e la cronaca nera di due anni fa), non riesco a cogliere né una questione ideologica né un problema politico in senso stretto. Ne percepisco invece, in tutta la sua drammaticità, la dimensione etica. Ed è soltanto di questa che voglio provare a dire.

Una fontana di Roma

L’acqua è un bene primario. Come lo sono la terra, l’aria, l’energia. Vuol dire, semplicemente, che senza quei beni, che esistono in natura, non si può vivere, anzi, non si può neanche sopravvivere. Sarebbe etico considerare i beni primari come beni pubblici, cioè di tutti: non c’è motivo per ritenere che solo pochi debbano disporre di ciò che è essenziale per la sopravvivenza dell’intera umanità. Eppure sappiamo bene che non è così. La terra è di pochi da sempre, per la proprietà della terra (e quindi del cibo che produce) si sono combattute guerre e si sono fatte rivoluzioni, si è lottato e scioperato, si è discusso e decretato. Il risultato è che sempre più terra è in mano a sempre meno persone e imprese, che applicando logiche economiche contro le quali bisognerebbe celebrare un altro processo a Norimberga stabiliscono il prezzo dei cereali, ignorando che molti non possono permettersi di spendere così tanto per mangiare, per sopravvivere. L’energia è un altro bene primario che dovrebbe essere pubblico e invece è nelle mani di pochi. Che quei pochi, poi, siano compagnie private o statali non fa quasi nessuna differenza in questo caso: sono tutti assolutamente d’accordo sul fatto che non sia necessario investire nelle energie rinnovabili e poco costose, considerandole antieconomiche, ovvero di poco profitto. Continuando su questa strada, peraltro, si contribuisce a inquinare l’aria, un altro bene di tutti la cui qualità (come viene talora eufemisticamente chiamata) pagheremo tutti, e non quei pochi che hanno contribuito di più allo spreco dei combustibili fossili, un altro bel nome che significa robaccia nera e puzzolente che esiste in natura ma è gestita da qualche potente, per cui si fanno le guerre eccetera eccetera. L’acqua è solo l’ultimo tassello di questo mosaico che evidenzia soltanto soprusi e appropriazioni indebite di beni che dovrebbero essere di tutti da parte di pochi privilegiati, chiamiamoli così per non dire più semplicemente ladri, profittatori, bastardi. Il decreto, poi, è solo l’ultimo passaggio. L’acqua è già privatizzata da un pezzo: una diga che sbarra un fiume nega la piena disponibilità dell’acqua in quanto bene primario a chi sta a valle; le sorgenti (dico, le sorgenti, conoscete l’etimologia di questa parola?) sono state affittate alla Nestlè, che di fatto non distribuisce acque della salute, ma si limita ad accumulare profitti; per non parlare delle spiagge concesse agli stabilimenti balneari per costringere tutti a pagare l’accesso a ciò che in quanto geografia, territorio, elemento, ci appartiene e basta. La cosa più triste è che in questa appropriazione istituzionalizzata di beni primari da parte di pochi le complicità sono ampie e diffuse: avvalorano questo modo di gestire gli elementi della natura sia governi di destra che di sinistra, sia privati che stati (dimostrando se ce ne fosse ancora bisogno che “pubblico” non significa necessariamente “statale”), sia i paesi ricchi che i paesi poveri, o meglio, i loro governi. Che cosa possiamo fare? Sul piano etico le uniche opportunità che ci restano sono l’educazione e il controllo. Proviamo a imparare a sprecare di meno, a riciclare, a riscoprire il piacere di andare a imbottigliare acqua di sorgente, come facevano i miei genitori ogni domenica, ammesso che ci sia ancora qualche sorgente “pubblica”; proviamo a risparmiare energia, a osservare le fontane nelle piazze spiegando ai nostri figli che non erano attrazioni per turisti ma luoghi per permettere a tutti di raccogliere acqua; proviamo a non comprare i prodotti delle multinazionali che strappano la terra alla povera gente o accumulano profitti ingiustificati sulla gestione di beni primari, e a leggere i giornali o ascoltare i notiziari che si ricordano ancora che sono davvero importanti il vertice FAO di Roma e quello sul clima che si terrà a Copenhagen, e non il delitto di Garlasco o il ruolo delle escort nella società contemporanea. A queste e ad altre infinite forme di educazione al controllo indiretto dovremmo infine affiancare azioni più specifiche di controllo diretto sulla gestione dei beni primari e degli elementi naturali. A me non interessa se la società dell’acqua potabile è statale, comunale, mista o privata. Non è quello che fa realmente la differenza. A me interessa che garantisca a tutti l’acqua potabile, senza lasciare che prevalga la logica del profitto, ma applicando il principio etico della piena disponibilità del bene, in quanto pubblico. Su questo possiamo vigilare, non sarà facile ma possiamo farlo. Prima di incazzarci sul serio…

Ecco. Ho detto una parte di quello che nei risvegli di questa notte ha affollato la mia mente, e mi rendo conto, ora, di quanto sia difficile conciliare le emozioni interiori con i fenomeni che ci circondano, e le cose che accadono nella cronaca che resta dopo che la storia è finita. Volevo parlare dell’acqua per recuperare spunti di poesia (“Laudato si’, mi Signore, per sor’acqua, la quale è molto utile et hùmele et pretiosa et casta” scriveva Francesco d’Assisi quasi 8 secoli fa), e invece sono scivolato lungo la china di una generica invettiva geopolitica di ispirazione ambientalista, aggrappata al valore dell’etica tanto quanto Sisifo era aggrappato al peso della sua condanna. C’è bisogno anche di questo, ma è un segno di povertà di spirito: in fondo non ho detto nulla di diverso da chi ieri sera snocciolava cifre sul costo del servizio dell’acqua potabile nelle città italiane. Ho solo espresso un punto di vista differente. Ma non ho aggiunto nulla, come avrei desiderato. Non ho cercato nelle parole la bellezza di una sorgente, che è ciò che di più simile agli occhi di chi si ama si possa immaginare. Non ho tirato fuori la sofferenza che mi sta lasciando dover parlare di uno degli elementi primigeni come se fosse qualcosa che si può esporre su un bancone al supermercato. L’acqua per me è una visione nitida in tanti sogni ricorrenti. Per un certo periodo ho sognato di case di legno montate su basse palafitte, sotto le quali scorrevano le maree. Poi ho sognato paesaggi grigi e verdi, di rocce e di licheni, e di gruppi di amici che si allontanavano senza aspettarmi, mentre mi soffermavo ad appoggiare la mano nella spaccatura di una pietra dove dell’acqua limpida galleggiava sul suo stesso suono. E i fiumi di Siddharta, che ho letto e riletto da ragazzo così tante volte che non ricordo nulla della prosa, ma rammento ogni piega della corrente. Sono questi i nodi di un discorso che varebbe la pena portare avanti. Per circoscrivere come in una favola la materia del contendere; per capire che si sta parlando di ciò che è sempre stato in noi, e con noi, e in cui siamo immersi per riemergere, o naufragare, tutte le infinite volte che l’elemento liquido diventa metafora, e la metafora diventa increspatura, onda, cascata, risacca. O più semplicemente, un vetro penetrabile al di sotto del quale possiamo permetterci di aprire gli occhi nella consistenza del silenzio, e ricordarci di ciò che eravamo e di ciò che potremmo ancora essere.

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