Popolo e rete

In questi giorni (a dire il vero da qualche tempo), si sente usare sempre più spesso un termine che forse merita qualche riflessione e soprattutto qualche precisazione: mi riferisco a “popolo della rete”. Non sono sicuro che si tratti di un neologismo consolidato: ho cercato a lungo e non ho trovato traccia di una definizione ragionevole, se si escludono alcune note critiche di Carlo Formenti , Giancarlo Livraghi, che afferma che “non esiste alcun ‘popolo della rete’, e anche chi si occupa seriamente dell’internet non dedica ai ‘numeri’ generali più interesse di quanto meritano”, e Giorgio Jannis, che ribadisce che “non esiste nessun ‘popolo della Rete’, come dicono i giornali: quelle persone siamo noi, normali cittadini, metà o più della popolazione italiana (e solo la miopia culturale e politica ha impedito e impedisce tuttora la riduzione banalmente tecnica del digital divide, altrimenti saremmo molti di più), che ritengono la frequentazione della Rete una normale pratica quotidiana, ludica o professionale, e soprattutto considerano il web una risorsa preziosa per vivere meglio”. Cercando ancora, non ho trovato neanche riferimenti certi in lingua inglese, dove parole come “people” o “crowd”, talora usate a proposito di Web 2.0 assumono in realtà significati diversi e dovrebbero essere più correttamente tradotte con “gente” o “masse” se proprio si vuole cedere al ricordo nostalgico di qualche lettura ormai fuori moda. Perché, dunque, così tanta enfasi su un termine che nella migliore delle ipotesi non significa nulla? Temo che si tratti della combinazione di due tipiche derive italiane. La prima è la superficialità con cui si coniano o si usano definizioni che non corrispondono necessariamente a un significato consolidato: non so su quale giornale o in quale notiziario qualcuno ha parlato per la prima volta di “popolo della rete”, ma è certo che altri hanno ripreso la stessa definizione senza chiedersi perché. La seconda deriva è probabilmente legata all’appiattimento dell’informazione su schemi obsoleti e fortemente improntati a una visione strutturata, solida, della società nel suo complesso e dei fenomeni legati all’impatto delle nuove tecnologie: non avendo idea di cosa sia realmente una rete, molti giornalisti la chiamano “popolo”, sovrapponendo un concetto che conoscono o almeno credono che sia comprensibile a un concetto che altrimenti sarebbe lungo e faticoso sia spiegare che capire. Ecco, è proprio su questo che ritengo opportune alcune precisazioni. Il termine “popolo della rete” è sciocco, fastidioso e fuorviante. Non solo non significa nulla, ma esprime un concetto che è il contrario esatto di “rete”. Il “popolo”, se applichiamo una definizione corretta, è un insieme omogeneo di persone vincolate da una comune appartenenza istituzionale, culturale o territoriale. Una “rete” è invece l’insieme dei nodi che un certo numero di individui non necessariamente omogenei e senza vincoli originari stabilisce liberamente in base a un interesse o a un obiettivo. In sostanza, è uno strumento attraverso cui ciascuno di noi può decidere di condividere conoscenze nello spazio di una comunità (intesa come insieme temporaneo di individui collegati da nodi specifici) o collaborare con altri soggetti attivi, in modo fluido e consapevole. Per essere più chiari: il popolo è dato a priori, la rete si costruisce e si modifica giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. Il popolo è ricettivo rispetto alla ricerca di un consenso, la rete è proattiva rispetto alla costruzione di un’opinione. Il popolo si identifica in una morale diffusa, la rete può fondarsi soltanto su un’etica condivisa. Insomma, il termine “popolo della rete” è più che scorretto, è stupido. Lascia presupporre qualcosa che molti forse vorrebbero: la possibilità di considerare gli utenti di Internet come destinatari passivi di messaggi promozionali e quindi come bacino di consumatori o elettori strumentalizzabili. Non è così, per fortuna, la rete siamo noi, è ciascuno di noi, ogni volta che si stabilisce una connessione, ed è ciò che da ciascuna connessione può scaturire. Non lasciamoci fuorviare: in rete, finalmente, non siamo più popolo, non siamo più numeri, ma isole di arcipelaghi che talora prendono forma, altre volte galleggiano per incontrare altre isole; è una conquista importante, un passo in avanti lungo il percorso che porta dall’assuefazione alla morale come delega rispetto ai problemi all’etica della responsabilità come ricerca dinamica delle loro possibili soluzioni. La rete siamo noi, e possiamo farlo.  

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