Due linee d’ombra

Per molto tempo ho fotografato la mia ombra. Era un’immagine ricorrente, ossessiva, che spesso nascondevo in qualche angolo delle mie immagini, come una firma inconsistente. O come se volessi ricordare a me stesso che non ero, che la mia anima e il mio corpo si muovevano in due mondi incapaci di comunicare. Poi la cosiddetta vita ha ricominciato ad assumere una forma, e così ho smesso di inseguire quella proiezione dell’aria, l’ultima che ne ho raccolto una con una macchina fotografica risale a più di due anni fa. Ma oggi mi sono ricordato di quelle ombre. Qui accanto, su uno scaffale, ho ritrovato un libro di Ernst Gombrich [Shadows, 1995; ed.ital. Einaudi, 1996] che ne parla, ricordando le ombre nella storia dell’arte ma anche le storie che parlano di ombre, dai miti di Platone al Mahabharata, dove si narra della principessa Damayanti e di come riuscì a riconoscere il suo amato Nala tra le quattro divinità che avevano assunto il suo aspetto, poiché essendo l’unico a essere corporeo era l’unico che proiettava un’ombra. L’ombra, quindi, non è solo una metafora dell’inconsistenza della vita, ma anche la prova che la luce ci colpisce e ci illumina. Insomma, la testimonianza stessa del fatto che siamo vivi. Per questo sono andato indietro nel tempo a cercare le immagini delle ombre che avevo catturato, e ho trovato questa…

Ombre a Zacinto

Siamo io e D a Zacinto, nella luce accecante che solo la Grecia sa regalare. Sembriamo due personaggi su un vaso antico, dipinti dal sole sulla stessa terra da cui prendevano forma le ceramiche a figure nere. Due amanti in fuga, forse, o eroi di tempi che non ci sono più. Forse un kouros e una kore, nell’entusiasmo della loro eternità. Non mi ero mai accorto di quanto fosse bello questo nostro autoritratto indiretto. Due linee d’ombra.

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