E adesso? [lettera di Natale, 2015] 1

E adesso? A chi o a che cosa posso scrivere ancora una lettera in questo Natale di guerra? Cento anni fa (e probabilmente anche cento e cent’anni prima) dicono che i soldati intirizziti dal freddo e impregnati del fango e del sangue di trincee che si fronteggiavano per contendersi qualche ettaro di territorio abbiano spontaneamente deciso una tregua proprio nel giorno di Natale, come se volessero affermare che almeno una volta in un anno era lecito non macchiarsi di inutili delitti, o almeno non morire invano. Non so se credere a quelle storie: ho letto le lettere di quei soldati; ma nulla lascia pensare che quel desiderio di pace fosse dovuto al fatto che era Natale. Tutti i giorni è Natale per chi ha voglia di pace; e ogni giorno merita una tregua. Alla fine, quei racconti sono superflui, quei simboli non bastano. No, non scriverò a quei soldati: le loro ossa disperse nei campi intrisi di pioggia, nei boschi di betulle annerite dai gas o tra i sassi delle montagne che molti di loro non avevano mai visto prima non possono più sentirmi. Ma non scriverò di certo neanche a chi li ha mandati a morire: non c’è Natale per coloro che decidono davanti a un caminetto acceso chi può permettersi il lusso di sopravvivere e chi invece può essere sacrificato o bombardato in nome di verità rivelate o, più spesso, per puri e semplici calcoli di interesse; non ci sono montagne sconosciute, boschi di betulle o campi di pioggia per i tiranni e i loro luogotenenti; non c’è niente che valga la pena dire di loro, neanche le parole peggiori.

Ma allora? A chi posso scrivere ancora, adesso? A chi di noi, esseri che ci crediamo umani? Chi di noi merita altre parole? Con quelle che si sono accumulate in quest’anno oscuro può prendere forma un intero alfabeto sovraccarico di tristezza. A come annegare. B come bambini. C come camminare per andare via, correre per scappare via. D come distruggere. E come eravamo (ma cosa? Più felici? Più umani? Più forti? E ora cosa siamo? Perché non lo siamo più?). F come fuoco, quello che esce dalla bocca dei cannoni o dalla canna dei fucili automatici. G come grida. H come certe bombe di cui si parla di nuovo come se fossero soltanto pezzi di un gioco da tavolo e non uno dei peggiori mostri evocati dagli uomini. I come indifferenza, irresponsabilità, integralismo. L come lontananza. M come morti e morte, maschile, femminile, singolare, plurale… che differenza fa? N come nichilismo, cioè niente, cioè nulla. O come ottusità (che altro?). P come Parigi (che altro?). Q come quantità, che sembra una parola innocua in questa sequenza ma è una delle più subdole: significa che siamo solo numeri, che non conta altro che la nostra somma, il nostro resto. R come rifugiarsi: sì, ma dove? S come silenzio. T come terrore, quello che non abbiamo alcun motivo di provare ma che si vuol far credere che debba accompagnarci ogni giorno, in modo che (cito una battuta di un film d’azione) sia sempre Natale: per i trafficanti di armi, i corrotti, i corruttori e i rivenditori di sistemi di sicurezza. U come urla. V come vittime, quasi sempre senza colpevoli. Z come un cerchio che si chiude e, magari, come una speranza, perché significa “è vivo” in greco antico. Un glossario in negativo, dove tra le stesse parole, come l’ombra tra le foglie di una siepe che non schiude niente di infinito, si sciolgono le immagini che le accompagnano. Una, tra tutte: quella di un bambino morto su una spiaggia. Quella non riesco proprio ad accettarla, né a racchiuderla in uno scrigno imperfetto, fatto di pezzi di rabbia e di residui di sensibilità. So soltanto che se in questi giorni provassi a immaginare un presepe non saprei più dove mettere il bambino che nasce. Quello che muore sarebbe al centro della scena, nudo, solo, senza neppure una capanna, senza angeli che cantano (e se anche cantassero la loro voce sarebbe coperta da un boato sordo e insensato, lo stesso rumore che accomuna le bombe e l’indifferenza), senza un padre e una madre che forse sono già morti anche loro, forse sono rimasti al di là del confine, forse sono soltanto assenti; senza nessun re che possa portare dei doni, ammesso che ci sia ancora qualche re capace di seguire una stella per guardare con la dovuta umiltà e per cercare di comprendere, con la dovuta intelligenza.

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E adesso? Adesso potrebbe sembrare che questo catalogo del dolore e della sofferenza possa diventare un peso che ci schiaccia e ci rinchiude in una prigione. Ma non è così. Quel dolore, quella sofferenza ci aiutano a non dimenticare. E a capire che rispetto a cento anni fa si può anche fingere che sia tutto cambiato, ma in realtà c’è solo una differenza apparente tra quei soldati che venivano considerati “carne da cannone” e noi tutti. Noi che siamo bersagli e vittime di strategie di marketing aggressive o di tattiche opportunisticamente fondate sulla paura. Noi che siamo solo cifre su un foglio di calcolo, pedine su una scacchiera di cui nessuno conosce realmente i giocatori. Noi che non siamo esseri umani ma (a seconda dei casi) clienti, elettori, gente, campioni statistici; e qualche volta morti, feriti, scampati, superstiti. Comparse in un palcoscenico dove ogni giorno va in scena la dose di terrore necessaria e sufficiente per convincerci ad acquistare una pausa che ci illuda di non essere più accecati dal dolore, o un placebo che limiti la sofferenza fino alla prossima ferita reale, metaforica o virtuale. Siamo tutto, fuorché noi stessi. E forse anche meno consistenti di quei soldati che almeno cercavano ingenuamente di riprendersi il Natale, anziché essere costretti a pagarlo con una carta di credito e a nasconderlo in un pacchetto per paura di respirarlo al momento sbagliato.

Adesso non ascoltate chi sostiene di vendere momenti felici per fingere che almeno il giorno di Natale non prevalgano il dolore o la sofferenza. Non cedete a chi cerca di usare perfino il dolore e la sofferenza come pretesti per distribuire psicofarmaci sotto forma di inutili cadeaux. Il dolore e la sofferenza sono compagni di viaggio di chiunque voglia vedere, capire, ricordare. Sono elementi essenziali di quel senso di umanità che stiamo perdendo nostro malgrado. Senza la dimensione del dolore non potremmo apprezzare le scintille della vita, senza la sofferenza non potremmo commuoverci, come succede quando sfioriamo il crinale della gioia e ci accorgiamo per un attimo che siamo in equilibrio tra due zone d’ambra che somigliano l’una al baratro dell’ignavia che potrebbe annichilirci, l’altra a quello coperto di rose dove precipita la poesia. Anche in questo Natale di guerra ci saranno occasioni per provare dolore e sofferenza: dobbiamo solo riuscire a non sprecarle per inseguire la vanità delle cose e il commercio della vacuità che ne è la diretta conseguenza. Lo so che è difficile. Ma solo così potremo capire. Capire che la felicità non è dentro una bottiglia di acqua sporca rivestita dello stesso colore di Babbo Natale; non ha nulla a che vedere con il sapore inconsistente di dolcetti o scherzetti che chissà perché dovrebbero di volta in volta farci diventare più buoni o in qualche caso perfino più cattivi. Capire che la felicità non ha bisogno di profumi che creano dipendenza; non è un gioiello esclusivo che tutti possono permettersi, non è un’offerta speciale, non è tutto compreso, non è l’ultimo modello di cui non si può fare a meno.

La felicità, piuttosto, è la tregua che riusciremo a stabilire tra le trincee della malinconia. La felicità è sapere che ci vorrebbero ore e ore per descrivere il colore degli occhi di chi si ama. La felicità (come sapevamo già leggendo libri) è assaggiare i ricordi attraverso il sapore di un piatto cucinato con amore. La felicità è scoprire un paesaggio illuminato dal sole salendo dalla nebbia della valle fino alla cima della collina; è sprecare del tempo in ciò che per chiunque apparirebbe inutile, ma non per noi; è vedere un delfino all’improvviso; è tornare in un luogo che non speravamo più di rivedere. E a volte è anche sentirsi pienamente coscienti del contributo che possiamo dare perché qualcosa possa davvero cambiare, delle sue dimensioni e della sua consistenza: che di solito è poca cosa, ma è sempre meglio del niente che molti predicano o del troppo che altri pensano di dover fare, confondendo l’etica con ciò che intendono per verità e la ragione con il superego. A chi ha coscienza in particolare – e più in generale a tutti gli uomini che non confondono la volontà con la rappresentazione – regalo un altro alfabeto, più modesto, più delicato, incompleto, da recitare quasi sottovoce, ma più facile da ricordare. Amatevi. Bevete. Cercate. Date. Emozionatevi. Fate. Guardate. Innamoratevi. Leggete. Muovetevi. Narrate delle storie. Osservate. Pensate. Ragionate. Scrivete. Tornate. Uscite. Viaggiate. Un elenco semplice, che si può anche mettere come un dono immateriale sotto un albero della vita, senza neanche bisogno di incartarlo…

One comment on “E adesso? [lettera di Natale, 2015]

  1. Mariapia Giulivo Dec 28,2015 10:53 pm

    Non necessita che di un solo commento…Per me sono tutti pensieri da condividere…Sognare, amare, vivere forte…La vita non si incarta. Si dona nuda…

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