Un altro orizzonte 2

Non è la forza che manca, e neanche il coraggio; è che non c’è più entusiasmo, non si riesce più a sorridere per la soddisfazione di aver scoperto qualcosa, di aver visto che una luce illumina ciò che stiamo per incontrare nel nostro cammino. Riuscite ancora a ricordare la forma del sorriso dei kouroi e delle korai? Esprimeva l’equilibrio tra il desiderio di fare quel passo in avanti, proprio quello che da esseri umani li avrebbe fatti diventare eroi, e da eroi li avrebbe resi simili agli dei, e la serenità di chi sa che può riuscirci. Ma quel sorriso è scomparso, al suo posto ci sono solo le nostre smorfie, le nostre perplessità, le labbra dritte e serrate di chi ha perso i sogni, la speranza, perfino la capacità di credere che sia possibile cambiare qualcosa, anche poco, ma con le nostre mani, attraverso le nostre idee, grazie ai nostri gesti. Ecco cosa siamo diventati: ombre di noi stessi, rannicchiate in un angolo buio e polveroso della storia, in un fazzoletto di mondo sporco e ingiallito, che non riusciamo neanche a lavare, o a gettare via. Penso a tutti quelli che hanno dato la vita anche per noi, a tutti quelli che hanno rinunciato ai loro anni più belli o che sono stati costretti a immaginare il futuro per non essere schiacciati dal presente, o a desiderare un mondo migliore per superare le difficoltà che avevano dovuto affrontare. E poi mi guardo intorno, e riesco a vedere soltanto profili sfuocati di gente che un tempo erano persone, ma adesso si limita a sopravvivere, a centellinare futili e apparenti distrazioni in un flusso di quotidianità ridotta alla pura necessità. Non solo senza entusiasmo, ma senza più neppure sapere di che cosa si tratta o che cosa significa. Perché è successo? Com’è stato possibile dimenticare tutto ciò che eravamo o avremmo potuto essere? Dare la colpa a questo o a quello sarebbe troppo facile: siamo tutti colpevoli, o quanto meno complici, da quando abbiamo cominciato a distogliere lo sguardo perché pensavamo di avere ben altro da fare, e non ci siamo voluti accorgere che stavamo delegando l’esercizio di ogni potere ai peggiori, che si stavano scoperchiando le fogne. E che in questo sfacelo gli unici valori che sarebbero stati in grado di sopravvivere erano il denaro, l’apparenza e l’irresponsabilità, come tre cavalieri di un’apocalisse al rallentatore, l’uno dentro l’altro, l’irresponsabilità come linfa capace di far crescere e dilagare l’apparenza, l’apparenza come merce capace di risucchiare denaro, il denaro come mezzo e come fine, come principio e come territorio: come l’alfa e l’omega. E adesso? Non ditemi che non c’è più apparenza che tenga: un velo di Maia fatto della poltiglia che resta della realtà avvolge i nostri sensi e li illude, più che mai, ora e sempre, per ingannarci ancora e rendere l’essere ancora più insostenibile, sapendo che non ci sono limiti all’assenza di spessore. Non ditemi che l’irresponsabilità ha passato il segno e che ritroveremo un minimo di orgoglio: ogni giorno gli irresponsabili mettono in scena un nuovo spettacolo, il cui scopo è abituarci al penultimo e strappare qualche applauso, purché sia, sapendo che il rumore di quattro imbecilli è in ogni caso più forte del silenzio di cento indignati. E poi non ditemi che non c’è più denaro e che ci risveglieremo bruscamente da questo incubo e capiremo che è ora di reagire. Non è vero. Il denaro sta solo passando dalle mani di chi ancora lo considerava solo uno strumento utile per dare forma e sostanza a qualche desiderio o a qualche progetto a quelle dei peggiori tra gli irresponsabili: ce lo stanno letteralmente rubando – i venditori di fumo e di beni inutili, le banche, i ministri dell’economia, quella parvenza di abbondanza che si respira nei centri commerciali, la malinconia forzata dei saldi di fine stagione, le offerte tutto compreso salvo clausole vessatorie, i maestri del branding e gli speculatori immobiliari – avvolgendoci in nuove forme di apparenza, come in una specie di nebbia calda, dove non si perde soltanto il senso dell’orientamento, ma perfino le illusioni. E anche noi abbiamo le nostre colpe, perché non facciamo quasi nulla per impedirlo, e quello che facciamo è inefficace: come si fa a spiegare a chi pensa che tutto possa essere facile e che la vita sia quella cosa frivola, colorata e dolciastra che prende forma negli spot pubblicitari, che non è vero? Che le pubblicità non dovremmo neanche guardarle? E che la vita è una costruzione complessa, difficile, un percorso faticoso che a volte richiede lacrime e sangue, sudore e rabbia? Siamo a un punto di non ritorno, e per di più di un viaggio che nessuno di noi avrebbe voluto consapevolmente intraprendere. Dobbiamo ricominciare da capo, re-inventare qualcosa. Ma come? Cosa? Io cerco di non comprare i prodotti delle multinazionali o delle società oligopolisitiche, ma è una battaglia senza speranza: si nascondono, si mimetizzano, e appena intravedono che qualche ipotesi alternativa può diventare un mercato interessante se ne impadroniscono, la assimilano, la divorano. Cerco di non guardare la televisione, ma anche quello è difficile, ci pensano i giornali del giorno dopo a ricordartela, dedicando pagine e pagine a personaggi che hanno detto e fatto qualcosa in televisione, per la televisione, attraverso la televisione. Ormai il cuore del mondo è una ladra di tempo. Sono arrivato al punto che non compro più quasi niente, se non lo stretto indispensabile, per non correre il rischio di arricchire ulteriormente qualche farabutto che in piena coscienza o senza saperlo neppure lui contribuisce a fare di questo mio paese quella palude di morti viventi che sta diventando. Ma non è questa la strada: dire di no è solo un passaggio, l’inizio della ribellione. Poi, bisognerebbe ritrovare lo sguardo di un bambino che si incanta dietro un vetro perché qualcosa, in cielo o sulla terra, dimostra che il mondo è in un granello di sabbia, e l’eternità in un momento. Forse allora riusciremo a capire finalmente cosa fare, come, quando. E cammineremo di nuovo con lo sguardo fiero, il passo deciso, in cerca di un altro orizzonte.

2 thoughts on “Un altro orizzonte

  1. Mario Rotta Jan 25,2011 11:39 am

    @Agostino. Indignarsi è sicuramente un gesto civile, e un atto di coscienza. Ma temo che sia gratificante soprattutto per chi si indigna, all’oggetto o agli oggetti dello sdegno non importa più di tanto se il loro operato è ritenuto riprovevole da una minoranza che ha ancora qualche capacità di discernimento sul piano etico. Se vogliamo colpire davvero i ciarlatani, gli imbonitori, i venditori di fumo, gli speculatori, gli imbroglioni, dovremmo andare oltre l’indignazione: colpirli (più prosaicamente) nelle entrate e nella visibilità, reindirizzando almeno un po’ di denaro verso i più degni e un po’ di attenzione verso i migliori. Perché se dei migliori non si parla, nessuno si accorge che esistono, mentre ai peggiori interessa solo che si parli di loro, anche male purché se ne parli, e che si acquistino i loro prodotti, anche per sfinimento, per mancanza di volontà, perché non abbiamo tempo di cercarne altri, a loro non importa, basta che alla fine si ceda, volenti o nolenti, per indolenza o per necessità. Invece bisognerebbe rifiutarsi, abbassare lo share, ridurre l’audience, erodere quote di mercato…

  2. Agostino Quadrino Jan 25,2011 11:17 am

    Considerazioni molto amare le tue, ma come non riconoscerne le ragioni? Il tema della rivolta morale mi sta molto a cuore in questa fase in cui mi pare che le persone si siano lentamente e progressivamente assuefatte a tutto. L’indignazione morale è un segnale che ancora c’è sensibilità nelle coscienze e questo mi sembra un punto di partenza necessario. Senza questa sensibilità non siamo più vivi. Ed è forse questa morte civile che vogliono coloro che vendono le loro merci e che hanno introdotto questo totalitarismo senza armi, a bassa intensità, ma che ha effetti devastanti sulle vite e sul pensiero di milioni di persone.

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