Una sobria proposta

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La tristezza si aggira per l’Europa. Mascherata da un infinito “altro”, si insinua nei paesi membri insieme ai tanti altri fantasmi che noi stessi abbiamo creato o alimentato negli anni. Ma se pensate che questo sia l’ennesimo lamento sull’imminente tramonto del vecchio continente vi sbagliate. Non sono arrivato fin qui né per seppellire l’unione europea, né per tesserne gli elogi. Sono qui per ricordare. Anche se ricordare non rende trasparente quel velo di tristezza che ci avvolge. Ma la prima cosa che vale la pena ricordare è proprio questa: che l’Europa ha cominciato a prendere la forma di un’idea di fronte a una tristezza infinita: anni di distruzione, di dolore e di morte praticati come se fossero un culto e disseminati come se fossero inevitabili; una sistematica vocazione all’annientamento, allo sterminio di un “altro”, come se essere un altro fosse una vergogna e non un’opportunità di scambio, di arricchimento reciproco.

No, non dirò banalità. Non cederò a certe conclusioni semplicistiche sui tanti genocidi dimenticati, dispersi tra le pieghe della storia, perpetrati per interesse o per puro odio. Non sono tutti la stessa cosa, se non perché ogni volta che un uomo viene ucciso è come se fosse ucciso il mondo, e questo, e non altro, rende uguale ogni atto omicida. Ma la Shoah non è stata una sequenza di omicidi: è stata una strategia lucida e pianificata, un tentativo sistematico di cancellazione di un “altro” popolo. Non di un nemico. Di un popolo, in quanto tale. O forse neppure quello; perché è difficile delimitare un popolo, soprattutto se è fatto di gente che vive in tante nazioni diverse, di cittadini di nazioni diverse. Eppure 70 anni fa in questa stessa Europa rattristata e incerta, in molte delle nazioni in cui era divisa si andava in cerca di quel popolo. Per annientarlo. Tra le urla degli esaltati, nel silenzio di chi si sentiva “normale”, di chi preferiva fingere di non sapere o non vedere in nome di quel cinismo tipicamente umano in base a cui (come direbbe Montale) non importa chi muore, purché sia sconosciuto e lontano.

Poi, alla fine, tutti gli europei hanno pagato e sofferto: della Germania restarono solo macerie, in Russia morirono venti milioni di persone, e in quasi tutti gli altri paesi la distruzione sgretolò quasi tutto. E fu per questo, fu perché tutti a quel punto avevano subito, avevano visto, avevano saputo, avevano pianto, che si cominciò a pensare che forse l’Europa poteva rielaborare le sue colpe e le sue ferite dando vita a un progetto di pace, che col tempo ha portato a una fragile ipotesi di unificazione, sicuramente imperfetta ma meravigliosa nella sua visione. Fu l’intuizione di nomi che meritano a loro volta di essere ricordati: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Robert Schuman, Jean Monnet e molti altri. Forse bisognerebbe rileggere le loro parole. Spinelli ad esempio scrisse che “la federazione europea non si proponeva di colorare in questo o quel modo un potere esistente. Era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo”. Una sobria proposta.

Da allora quel progetto è andato avanti. Non come ci si aspettava, forse, ma l’importante è che non sia stato accantonato. Che non sia dimenticato. Purtroppo, invece, molti dimenticano, e altra tristezza si aggira tra noi. Si insinua nell’ipocrisia di quei singoli stati che cercano solo di ottenere vantaggi a scapito degli altri, ignorando completamente che la parola cooperazione è stata una delle prime a essere evidenziata nei trattati costitutivi. Si nasconde nella demagogia di comodo di chi vorrebbe sgretolare di nuovo l’Europa o di chi vorrebbe metterne in discussione le poche conquiste concrete. Si annida nel formalismo e nei distinguo delle reazioni diplomaticamente ufficiali con cui si condanna il terrorismo che ci riguarda. Si intravede in chi chiede che debba limitare la libera circolazione delle persone, o che si debba tornare alle nostre obsolete monete nazionali. E in chi ci mette in guardia da quei cittadini come noi che però sono più pericolosi, perché in fondo sono diversi, perché in fondo sono di un’altra razza, hanno un’altra religione, parlano altre lingue. Tutte cose che avevamo già sentito. Più di 70 anni fa.

Sappiamo tutti che c’è ancora molto da fare. Ma siamo sicuri che la soluzione consista nel rinnegare l’unione economica? O nel delegittimare il parlamento europeo che tutti noi abbiamo contribuito ad eleggere? O nel rifiutare la moneta comune? O nel ridurre l’applicazione degli accordi di Schengen? Parliamone, magari, miglioriamoli, ma andiamo avanti. Tutti insieme, confrontandoci su sobrie proposte, in nome di quel concetto di democrazia che proprio qui è nato e si è sviluppato. E che da sempre non contempla la tristezza, ma solo la gioia.

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