L’eredità contraddittoria: qualche idea per ripensare alle politiche culturali italiane

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Sollecitato da vari amici ho finalmente letto Le Pietre e il Popolo, di Tomaso Montanari. Si tratta di un ragionamento sull’abuso e sullo scempio del patrimonio storico e artistico italiano, e in parte di una denuncia contro l’ingerenza della politica e degli affari nella gestione dei beni culturali, indirizzata in particolare a Matteo Renzi, con cui Montanari (sembra di capire leggendo tra le righe) ha probabilmente qualche conto in sospeso. Non conoscendo personalmente né Montanari né Renzi e non potendo quindi approfondire e confrontare le rispettive motivazioni, non entro subito nel merito di questo secondo aspetto – di cui il libro si occupa largamente – e mi concentro piuttosto sull’oggetto dell’indagine: che è il rapporto tra i cittadini (e i loro rappresentanti) e l’eredità storico culturale.

Secondo Montanari questo rapporto – che in un paese come l’Italia dovrebbe rappresentare un passaggio essenziale nella costruzione dell’identità sociale – è stato irrimediabilmente minato dall’ingerenza di affaristi e politici spinti da motivazioni tutt’altro che culturali ed evidentemente più interessati a generare consenso e profitti, ovvero ad applicare nei confronti del cosiddetto “popolo” la tattica riduzionista (e purtroppo ricorrente) del panem et circenses. L’ossatura del ragionamento di Montanari è largamente condivisibile, e come potrebbe non esserlo? Ma tutto questo lo sapevamo già. Sono più di 30 anni che se ne parla, e forse sarebbe stato opportuno ricollocare questi fenomeni in una prospettiva in grado di evidenziare le molteplici responsabilità che hanno portato alla situazione attuale.

La tendenza a enfatizzare gli eventi culturali in base ai risultati ottenuti sul piano dei ricavi, dei numeri o dell’audience (un parametro che finisce col premiare mostre discutibili e dichiaratamente commerciali o l’utilizzo di aree monumentali come palcoscenico privilegiato per spettacoli avulsi dal contesto) risale ad esempio ad archetipi degli anni 80: le estati romane organizzate dall’assessore Renato Nicolini (dell’allora PCI) e motivate dal bisogno di riusare (ma il verbo più utilizzato allora era “fruire”) spazi storici altrimenti semiabbandonati; il fenomeno, in parte spontaneo, della “scoperta” dei bronzi di Riace; il concerto veneziano dei Pink Floyd, solo per citare alcuni “momenti” topici. In quegli archetipi si sarebbero già potute e dovute identificare le istanze critiche del problema di cui oggi si parla. Se così non è stato (o se lo è stato solo in minima parte), non si deve soltanto alle ingerenze crescenti di manager sempre più aggressivi o di politici sempre più arroganti. Si deve piuttosto all’assenza della politica (nel senso più stretto e più nobile del termine), ovvero alla cronica mancanza di politiche per i beni culturali e alla confusione generata dall’idea che occuparsi di eredità storica e intervenire sulla cosiddetta kultura (si scriveva spesso con la k, ben prima che si diffondessero SMS e Social Network) fossero la stessa cosa anziché essere elementi complementari di uno stesso contenitore strategico. Su questa assenza hanno influito vari fattori, tra cui, sicuramente, il deterioramento progressivo del livello della classe dirigente del nostro paese, ma non solo. L’informazione ha ad esempio giocato un ruolo determinante nella radicalizzazione del “dibattito” (diciamo così) tra chi vorrebbe tutelare il patrimonio e chi vorrebbe “metterlo a profitto”: per anni (e tuttora) giornali e TV hanno insistito in modo quasi schizofrenico da un lato su una sorta di sensazionalismo della volontà, ovvero sull’importanza primaria del patrimonio come occasione per creare indotto turistico, dall’altro su una specie di riduzionismo della ragione, ribadendo fino allo sfinimento un paio parole d’ordine ricorrenti e mai adeguatamente documentate: mancanza di fondi, carenza di personale. Due posizioni semplicistiche e non supportate da prove concrete, mentre sarebbe bastato consultare alcuni report internazionali e qualche dato statistico per capire almeno che:

  • l’indotto turistico del patrimonio non è particolarmente consistente, per la semplice ragione che il patrimonio non è l’unico elemento in gioco nell’industria turistica, e nel caso è solo quello che ci permette di mantenerci su un indice di competitività intermedio, in una situazione che ci fotografa impietosamente come arretrati e inadeguati per quanto riguarda soprattutto i servizi di accoglienza, la disponibilità di informazioni, i trasporti e altre tessere di un mosaico che non può essere ridotto alla semplice equazione arte = bellezza = turismo su cui purtroppo si continua a insistere sperperando denaro in ridicoli portali e campagne promozionali che avrebbero fatto sorridere già negli anni ’50:
  • il vero problema – relativamente alla gestione del patrimonio – non è tanto la mancanza di fondi o la carenza di personale, ma la destinazione dei fondi disponibili e la dislocazione del personale: leggendo i dati (ad esempio le statistiche elaborate a livello europeo da EGMUS) si evidenzia piuttosto, ad esempio, come i musei italiani siano complessivamente mal gestiti, poco visitati e scarsamente radicati nel territorio, a fronte di un numero di addetti equiparabile a quello di paesi come Francia e Germania; si evidenzia inoltre come talora la mancata copertura dei costi non sia dovuta tanto alla scarsità di fondi quanto al peso limitato degli introiti, che incidono invece molto di più (a vario titolo) sui bilanci di gran parte dei complessi monumentali di altri paesi, senza che questo sia peraltro necessariamente legato al costo di eventuali biglietti di ingresso;
  • da tempo si parla di impatto economico della cultura, intesa però non come assunto generico ma come insieme di ambiti operativi specifici, che comprendono prima di tutto le professioni culturali in senso stretto e quelle creative in senso più ampio, e in seconda istanza si riferiscono al complesso legame tra ricerca, informazione, educazione e creatività che passa anche – ma non esclusivamente – attraverso il rapporto diretto tra cittadini e eredità storica, ma riguarda soprattutto la possibilità e la capacità di trarre da quell’eredità l’ispirazione e la motivazione necessarie per investire sul futuro.

Come si può uscire da questa situazione di stallo sostanziale? Certo, bisognerebbe averci pensato per tempo, impostando 20 o 30 anni fa una politica culturale coerente quanto meno con un modello di sviluppo sostenibile e con una riflessione approfondita sul significato effettivo della nostra eredità e sulle molteplici competenze che avrebbero dovuto concorrere alla costruzione di una visione organica del problema. Ma se è proprio questo che è mancato – per una serie di ragioni che sarebbe difficile riassumere in breve, se non rimandando al concetto sociologico di “indifferenza dell’etica” descritto tra gli altri da Gianfranco Pardi – bisogna evidentemente rimediare ai ritardi che abbiamo accumulato. Così a Montanari non resta che abbozzare una risposta all’emergenza, che consiste nel partire dal presupposto che il patrimonio storico artistico è “pubblico”, ovvero appartiene ai cittadini e di conseguenza dovrebbe essere gestito dallo stato, cioè dalle sovrintendenze, dove operano (pur con qualche eccezione) persone competenti e in grado di interpretare gli interessi di tutti rispetto al bene comune. Questa soluzione, sempre secondo Montanari, sarebbe conforme all’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione e potrebbe limitare i danni che con ogni probabilità sarebbero prodotti da una gestione più aperta al contributo (si fa per dire) di enti locali in mano a politici ignoranti, compiacenti o corrotti o, peggio ancora, di fondazioni interessate solo a trarre profitto (magari a beneficio dei propri soci) da ogni possibile speculazione connessa – in senso lato – all’oggetto del loro interesse, di solito selezionato in base all’appeal che può generare e non in base a solide motivazioni culturali. Montanari arriva ad affermare che, poiché siamo quasi ad un punto di non ritorno, la musealizzazione del patrimonio o quella dei centri storici potrebbe rappresentare un male minore, in assenza di altre possibilità e soprattutto in presenza di alternative non disinteressate e rischiose. Se come storico dell’arte (anche se “non praticante”) e – se posso usare una parola controversa – anche come intellettuale, posso capire e condividere la posizione di Montanari, è come cittadino, anzi, in quanto persona che vive quotidianamente in un contesto storico e si occupa tra le altre cose di condivisione della conoscenza, che ho qualche dubbio su questa ipotesi di lavoro.

Potrei ad esempio ricordare che la musealizzazione del patrimonio e il congelamento degli interventi di ristrutturazione e adattamento a suon di vincoli rappresentano da sempre una delle cause del progressivo spopolamento dei centri storici e, più indirettamente, della loro conseguente trasformazione in alberghi diffusi (quando va bene) o in “centri commerciali naturali” (sic!). Più realisticamente, invece, bisognerebbe accettare l’idea che un tessuto storico urbano ha un senso quando è vivo e vissuto, come del resto è sempre stato. Ogni epoca ha lasciato i suoi segni sul continuum urbanistico e paesaggistico, stratificandosi sulle epoche precedenti, e non sempre in modo rispettoso o coerente. Se la nostra è un’epoca volgare, se quello in cui viviamo è un periodo storico regredito, vorrà dire che lasceremo tracce della nostra volgarità e della nostra regressione. L’idea ci può disgustare. Ma il problema non si risolve cercando di fermare tutto. Anzi, forse cercare di impedire che le varie componenti della nostra struttura sociale dialoghino (o litighino) con il passato finirebbe col radicalizzare ulteriormente la scissione tra l’appiattimento sulla cronaca e la reale comprensione della nostra storia. Impedendoci di vedere in che modo potremmo mantenere integro e rendere allo stesso tempo “vivo” un contesto storico-urbanistico (così come un contesto paesaggistico e ambientale) senza per questo cedere alla volgarità degli speculatori o all’approssimazione di sindaci, assessori, nani e ballerine. Il problema è culturale: si affronta attuando politiche culturali di ampio respiro, condividendo e disseminando informazioni, portando a poco a poco tutti i soggetti coinvolti a essere più consapevoli, a capire che si può lasciare una traccia del presente (sia stabile che effimera) senza che questo comporti una ferita o diventi una cicatrice. E a comprendere che non esiste la “grande bellezza” in quanto tale, ma solo in quanto specchio della nostra capacità di collocarla nella giusta prospettiva. Una prospettiva di cui tutti noi facciamo parte, e di cui sono parte integrante anche molti spunti interessanti sul concetto di economia della cultura che ha preso forma a livello europeo negli ultimi anni: dalle strategie per la digitalizzazione dell’eredità storica (si veda ad esempio The Cost of Digitising Europe’s Cultural Heritage. A Report for the Comité des Sages of the European Commission, by Nick Poole, the Collections Trust, November 2010), un’opzione imprescindibile su cui stiamo come al solito accumulando ulteriori ritardi, al passaggio da una concezione della gestione del patrimonio legata alla pura e semplice ownership o (quando va bene) al management a una visione più fluida e più ampia, che ormai si definisce con il termine shareholdering (su cui si può rimandare a titolo esemplificativo a contributi come The Economy of Culture in Europe. Study prepared for the European Commission [Directorate-General for Education and Culture], October 2006).

Su queste basi si può provare a costruire, anzi, a ri-costruire una politica culturale che includa tutti gli attori, ne ascolti le esigenze e ne inquadri le relative responsabilità. Va ribadito prima di tutto un concetto semplice, eppure, evidentemente, non ancora del tutto accettato: pubblico non equivale a statale, né viceversa. Pubblico, in senso stretto, è ciò che è “accessibile” a tutti, ovvero ciò che risponde a requisiti e condizioni che potrebbero – a titolo esemplificativo – essere garantiti da un soggetto privato (o da un ente locale) ma non da un ufficio statale. Il fatto che “tendenzialmente” i privati facciano soprattutto i loro interessi, gli enti locali pensino al marketing turistico e le sovrintendenze si prendano cura dei musei e dei monumenti non cambia il significato del principio enunciato. Si potrebbero citare casi di fondazioni che contribuiscono a salvare e rendere accessibile parte del patrimonio, di enti locali senza l’operato dei quali non sarebbe stato possibile recuperare certi nessi tra opere e territori di riferimento, e allo stesso tempo segnalare istituzioni statali sistematicamente impegnate a negare ai cittadini il diritto di accesso a un’ampia gamma di beni architettonici, artistici, archivistici e librari. Ma non è questo il punto. Il problema non è soppesare i pro e i contro delle diverse forme e modalità di gestione del patrimonio, né evidenziare il fatto – ovvio – che le situazioni andrebbero affrontate caso per caso. Il problema è capire se si può ipotizzare un modello di gestione dell’eredità storica che tenga conto di tutte le istanze in gioco, dei rischi correlati e delle opportunità riconoscibili, provando a guardare oltre l’equazione deterministica in base a cui, essendo il patrimonio artistico di tutti, ne consegue che debba essere l’apparato statale ad assumersene la piena responsabilità. Perché allora, considerando che stiamo parlando di un patrimonio dell’intera umanità, non affidarne la gestione direttamente all’Unesco? Non sarebbe affatto un’idea sbagliata, sempre che l’Unesco accetti di prendersi cura di un paese a cui ha recentemente minacciato di depennare dalla World Heritage List vari siti o monumenti che non rispettano la convenzione sottoscritta dai rispettivi amministratori.

Ma che cosa significa, dunque, amministrare il patrimonio culturale? Applicando il concetto di shareholdering si potrebbe dire che si tratta di identificare le istanze che meritano attenzione, e tra le quali è opportuno mediare verso una convergenza. Sono almeno quattro. La prima istanza è quella della tutela e della manutenzione: un’istanza imprescindibile, primaria, senza rispondere alla quale non ha ovviamente senso neanche parlare di tutto il resto. C’è chi ancora pensa che questa sia l’unica istanza in gioco, e chi le affianca (e talora le contrappone) un’altra istanza che viene spesso impropriamente definita attraverso un termine contraddittorio e neanche tanto bello: “valorizzazione”. Tra istanze della tutela e istanze della valorizzazione si combatte da decenni una guerra di trincea, in cui lo stesso libro di Montanari si colloca un po’ come un assalto alla baionetta, un tentativo di guadagnare qualche posizione a vantaggio di una delle due parti. Ma è una guerra inutile. A mio parere, è proprio sul concetto di valorizzazione che bisogna intervenire se vogliamo identificare un modello più aperto e più attuale per la gestione del patrimonio. Potremmo ad esempio superare il termine generico ed equivoco di “valorizzazione” e scorporarlo in due istanze precise e distinte: una legata alla divulgazione scientifica e alla didattica, che potremmo semplicemente chiamare “educazione” (è l’educazione che crea le basi per il miglioramento del rapporto tra cittadini ed eredità storica, è questa la prima linea di difesa contro l’imbarbarimento e la volgarità…); e un’istanza che si riferisca invece a uno dei possibili significati intrinseci del verbo valorizzare: letteralmente “creare valore”, un ambito che potrebbe comprendere in senso lato anche le attività commerciali o promozionali, ma che dovrebbe concentrarsi soprattutto sulla mediazione tra i settori dell’economia che entrano in contatto con l’eredità storica, e di cui il turismo rappresenta solo una parte. Va considerata infine una quarta istanza: la ricerca. Che sotto certi aspetti rappresenta sia il punto di partenza che quello di arrivo di ogni altro possibile passaggio. Si tratta di istanze compatibili? In che modo possono esserlo? Chi potrebbe garantirne una corretta interpretazione e una compenetrazione coerente? Proviamo a immaginare un modello complessivo che, come vuole l’imprinting della democrazia, si basi su diversi referenti in grado di controllarsi reciprocamente: la tutela e la manutenzione (che come sottolinea Montanari, è importantissima) potrebbero essere affidati alle istituzioni statali (ma senza dimenticare le responsabilità specifiche delle regioni in materia di tutela paesaggistica e ambientale); l’educazione potrebbe essere l’ambito specifico di competenza degli enti locali (comprese le scuole, nel quadro della loro autonomia); mentre la creazione del valore potrebbe essere il terreno su cui operano gli altri soggetti interessati, ad esempio i privati, ma non solo e non necessariamente (potrebbe riguardare ad esempio anche l’associazionismo…). Della ricerca, evidentemente, dovrebbe occuparsi in particolare l’università, affiancata da altre istituzioni culturali, non necessariamente pubbliche. Ora, si tratta di capire come mediare tra gli inevitabili conflitti che potrebbero verificarsi tra i soggetti identificati e i relativi referenti. Laicamente, mi verrebbe da dire che sarebbe sufficiente che ciascun referente operasse entro i limiti definiti dalla legge. Ma penso che si possa e si debba fare di più: bisogna che tra chi rappresenta le diverse istanze in gioco si crei una sorta di alleanza virtuosa, che prima di tutto si fondi sulla disponibilità di chi tutela a facilitare le iniziative di chi educa, in secondo luogo metta in grado chi educa di indirizzare la creazione del valore verso ipotesi di lavoro compatibili con il consolidamento di una maggiore o più diffusa “consapevolezza culturale” (che peraltro, è una delle 8 competenze chiave per l’apprendimento permanente nel quadro della costruzione della cittadinanza europea definite in abito UE), in terzo luogo permetta a chi crea valore di operare su margini ragionevoli imponendo in ogni caso sul valore eventualmente prodotto (e ricalcolato su altre basi, ad esempio anche sull’indotto indiretto di un evento o di un’azione) un reindirizzamento verso la tutela e la manutenzione e/o verso la ricerca. Se poi anche l’università facesse la sua parte, forse riusciremmo a fare qualche passo in avanti…

Per tornare a Renzi, posso dire a questo punto che non mi sembra che sia lui la causa della deriva in atto verso un degrado che talora appare irreversibile. Se mai, certe posizioni o certe affermazioni di Renzi sono effetti di quell’intreccio irrisolto di circostanze, complicità, inadempienze, furbizie, semplificazioni e disinformazione che negli ultimi decenni ha trasformato in poltiglia le politiche culturali italiane. Si tratta di ricostruirle queste politiche, supportarle con elementi concreti, renderle attuabili ed efficaci. Senza preclusioni o pregiudizi nei confronti di chi sarà disposto ad ascoltarle.

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