La festa scomparsa [Natale 2018]

E a chi scrivo adesso? Natale non c’è più. Oh, l’ho cercato. O almeno ci ho provato. L’ho cercato nelle strade così gremite di gente che non si riesce neanche a camminare. Nei mercatini che quest’anno erano già aperti a metà novembre. In tutti quei piatti di plastica colorati di rosso pieni di cibo luccicante e in tutte quelle luci maleodoranti. Non c’era più. Allora ho provato a cercarlo nelle cene tra colleghi, nelle sculture di ghiaccio sintetico, nei programmi per i giovani, nei negozi di giocattoli, nei venerdì neri, nei sabati del villaggio tirolese, nelle domeniche maledette domeniche. Non era neanche lì. E non era neppure nei sorrisi dei bambini, che pensavo fossero l’ultimo posto dove nel caso potrebbe nascondersi. Niente. Del resto anche i bambini erano cambiati. Non sorridevano più; erano nervosi e prepotenti, precocemente ipocondriaci, impegnati a sperperare quelle poche monete preziose che evidentemente non sapevano di possedere ancora: l’innocenza e la meraviglia. Lo capisco il Natale. Se fossi in lui, anch’io mi nasconderei. Non per la confusione che ormai ci insegue e ci circonda, ma per la vergogna. Forse è così. Natale si vergogna di essere stato ridotto a un vacuo inseguimento tra commercianti e clienti. E si nasconde. Perché così, almeno, gli resta quel pudore che molti anni fa era l’unica decorazione rossa che si accendeva sulle guance, prima che tutto fosse invaso dalle stelle e dalle strisce e dal loro esercito di account manager, cool hunter, fashion blogger, social strategist e relativo codazzo di leccapiedi con uno smartphone nella destra, uno nella sinistra e uno dove meno ve lo immaginate. A volte mi domando perché i terroristi di qualsiasi matrice se la prendano con i simboli espliciti del Natale consumista: in questo nostro modo di ridurre il Natale a un fuggiasco nascosto chissà dove, in fondo, c’è una tale carica di auto terrorismo che non c’è alcun bisogno di sparare per uccidere i passanti; siamo già anime morte che camminano in un vuoto affollato, in cerca di un punto interrogativo stilizzato per semplificare perfino la fatica di chiedersi perché. Ma adesso, a chi scrivo? A chi spedisco queste righe che anno dopo anno non fanno che constatare lo stupro della poetica e l’agonia della verità? Non posso trattenerle qui. Le parole, almeno le parole devono continuare a correre liberamente su strade deserte e su piazze che si risvegliano. Devono insinuarsi nel rumore di fondo strisciando come una folata di silenzio, come un pensiero improvviso che rimbomba in una mente svuotata. Devono lasciare le loro tracce sulla poltiglia della realtà, come scie di comete capaci di innescare la vita; come sogni di libertà; come gli occhi di chi si ama quando ci guardano con la dolcezza di cui proprio in quel momento avevamo bisogno. Dove sei? Dove ti sei nascosto? Sei ancora vivo? C’è ancora qualcosa di vero nei doni che portavi prima di subappaltarli a quelle che forse non a caso sono chiamate catene di grande distribuzione? Ma non aspetterò un tuo segnale. Ti scriverò ancora, sperando solo che queste poche frasi ti arrivino e ti aiutino a intuire cosa fare per uscire da questa prigione dove tutto deve scorrere velocemente per rimanere immobile, con tanto di musica in sottofondo. Io non lo so, ma tu forse sì. Magari potresti abbozzare qualche miracolo: farci rivedere per un attimo il sorriso di chi non c’è più; restituirci il muschio dei presepi; lasciare che scocchi quella scintilla di felicità sospesa in un granello di sabbia che a volte rende più preziosa di tutto il  denaro del mondo una serata passata ad assaporare un piatto che nessuno sa più cucinare o un abbraccio, all’improvviso, mentre la galaverna si illumina di malinconia alla prima luce dell’alba, al di là di quello stesso vetro su cui hai visto appoggiarsi, come in un sogno denso e che ti toglie il respiro, una madre che si perde negli occhi del suo bambino.

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